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IL FALLIMENTO DEL CAPITALISMO ULTRA-FINANZIARIO E LA RIVINCITA DEL LAVORO


Capitalismo ultra-finanziario, privatizzazioni, de-industrializzazione dell'Italia, precarizzazione, riduzione dell'occupazione e dei salari, smantellamento del welfare. Cosa c'è alla base della crisi economica e sociale sperimentata negli ultimi anni? E perché l'economia reale sembra aver lasciato il passo alla finanza e alla speculazione tesa ad arricchire una esigua parte della popolazione? Secondo il professor Antonino Galloni, i paesi del sud Europa, e in particolare l'Italia, sono stati vittime di un disegno neo-conservatore. Fra i principali strumenti di questo disegno si possono annoverare la sottrazione della sovranità monetaria e gli accordi di libero scambio di nuova generazione, come il TTIP, che minacciano ulteriormente la sovranità politica degli Stati. Una situazione complicata da cui si può venir fuori solo con un deciso cambio di passo. Conquiste del Lavoro ha intervistato il professor Galloni, a margine della presentazione del suo ultimo libro “L'economia imperfetta. Catastrofe del capitalismo o rivincita del lavoro?” (Novecento Editore), per comprendere nel dettaglio la sua analisi e per identificare possibili alternative per un rilancio di un'economia sostenibile e dei processi di inclusione sociale.

Professor Galloni lei fa riferimento alla “catastrofe del capitalismo” come base del processo di de-industrializzazione dell'Italia. Ci può spiegare questo legame?

Da più di dieci anni ci ritroviamo in una fase di capitalismo ultra-finanziario, molto diverso dal classico capitalismo finanziario con il quale abbiamo combattuto negli anni '90 e che puntava alla valorizzazione dei titoli in borsa. Il capitalismo ultra-finanziario, che ha come obiettivo la massimizzazione nell'emissione dei titoli, ha contribuito alla deindustrializzazione del paese. Per garantire margini di profitto è stato conseguentemente necessario ridurre l'occupazione in misura maggiore rispetto a quanto non si sia ridotta la produzione. Il capitalismo ultra-finanziario è lontanissimo dall'economia reale in cui non ha nessun interesse e nessun legame salvo lasciarla priva di liquidità.

Quando lei parla di de-industrializzazione dell'Italia fa riferimento anche a un preciso disegno politico teso a marginalizzare l'Italia. Di cosa si tratta?

Kohl e Miterrand raggiunsero un accordo che il governo italiano accettò. L'accordo prevedeva la riunificazione della Germania che abbandonò il marco mentre la Francia, che non poteva permettersi ulteriori svalutazioni, abbandonò il franco. Si varò allora la moneta unica ma bisognava de-industrializzare l'Italia a vantaggio della Germania, che stava attraversando una stagione difficile, e della Francia. Tutti dovevano assicurarsi che l'Italia si privasse della leva del cambio. Ma soprattutto doveva iniziare una stagione lunghissima di privatizzazioni che hanno portato all'aumento delle tariffe e della disoccupazione.

Lei parla di un piano dei conservatori basato su capitalismo ultra-finanziario, privatizzazioni e de-industrializzazione. I recenti accordi commerciali di nuova generazione, e in particolare il TTIP, fanno parte del piano dei conservatori?

Sicuramente sono un momento di sbocco, il suggello e il trionfo, la parte finale di un qualcosa che aveva come principale riferimento la deflazione salariale, l'impossibilita per gli Stati di avere una propria moneta e di gestire la globalizzazione per massimizzarne i benefici e evitare tutti i danni che ben conosciamo. Il TTIP è un'evoluzione tragica di questo processo perché è una intromissione di questo sistema nell'economia reale e perché vuole interferire pesantemente con i nostri modi di produrre, di commerciare e vivere. Ad ogni modo non credo che questo trattato avrà vita facile e che passerà facilmente come è successo con il pareggio di bilancio in costituzione o altre mostruosità passate nell'ignavia totale del parlamento. Questa volta i riflettori sono accesi e non sarà cosi facile approvare questo trattato. Non voglio peccare di ottimismo ma quello che posso dire è che se il TTIP fosse approvato andremmo incontro a un disastro ancora maggiore, quasi irreparabile.

Lei sostiene nel suo libro che la precarizzazione e lo smantellamento del welfare sono effetti di questa situazione in cui viene a mancare il principio solidarietà che dovrebbe essere invece alla base dell'economia. In questo contesto, qual è stato il ruolo dei sindacati?

Fino agli anni '70 i sindacati hanno fatto il loro mestiere sostenendo i salari e costringendo le imprese a introdurre tecnologie avanzate per risparmiare lavoro. Questo ha consentito di mantenere salari alti, profitti accettabili e il sistema in equilibrio. A un certo punto hanno però cominciato a spaventarsi troppo dell'inflazione e, conseguentemente, a portare avanti delle politiche contraddittorie anche sul piano degli aumenti salariali. Quando si è trattato di introdurre la necessaria flessibilità nel mercato del lavoro, invece di cambiarla con maggiore salario, hanno preferito cambiarla con maggiore occupazione perché nel frattempo si era manifestato un problema di disoccupazione. Questo è stato un errore fatale. Nel momento in cui il sindacato ha accettato di non cambiare la flessibilità con il salario ha aperto alla riduzione salariale e alla precarizzazione. La deriva è stata inarrestabile e la flessibilità si è trasformata in precarietà.

I sindacati possono oggi essere considerati parte di una possibile soluzione alla difficile situazione da lei descritta? Come risolviamo la questione occupazionale e quella salariale?

Il sindacato potrebbe essere parte della soluzione. Penso che sia necessario un ragionamento serio circa il welfare universale e la cura dell'assetto idrogeologico del paese. Queste due cose richiedono grandi risorse e tanto lavoro. Lavoro che ovviamente non può essere alle condizioni del mercato. Conseguentemente il ripristino della sovranità monetaria è un obiettivo che il sindacato potrebbe aiutare a raggiungere. Moneta fiduciaria, ripristino della sovranità monetaria, welfare universale, attività ambientali e sicurezza delle persone: sono questi gli ambiti in cui l'occupazione può tornare a crescere. In seguito si potrà ricominciare a fare la difesa dei livelli salariali che in questo momento è complicata perché l'economia è troppo aperta e non si possono aumentare i salari improvvisamente. Peraltro i comparti dove si possono aumentare i salari sono quelli della manifattura dove l'occupazione è destinata a scendere. Nel manifatturiero siamo in grado di aumentare la produttività, non l'occupazione. La questione che dobbiamo affrontare allora è che l'occupazione scende dove aumenta la produttività invece che il contrario. E' invece dove la produttività è relativamente bassa e ci sono enormi necessità sociali che l'occupazione non può salire perché non abbiamo le risorse per pagare i lavoratori. In Italia è possibile aumentare l'occupazione, si parla di 7-8 milioni di opportunità di lavoro, ma non sappiamo come finanziarla se non modifichiamo il regime dell'euro. Dobbiamo risolvere questo problema altrimenti non ne veniamo a capo. L'altra soluzione è il reddito di cittadinanza ma è una soluzione molto più limitata e marginale anche se comunque interessante se non scade in altre forme come il salario minimo garantito.

Lei parla, nel suo libro, di rivincita del lavoro. In cosa consiste?

Nell'ambito dell'economia reale, il lavoro può valorizzarsi attraverso nuove e vecchie forme come le cooperative, le imprese a conduzione familiare, le pmi e via dicendo. L'importante è che si trovino i mezzi monetari e finanziari adeguati. Questo può avvenire attraverso l'immissione di mezzi fiduciari pubblici e privati o con meccanismi di compensazione che riguardano le imprese che già si stanno muovendo in questo senso. Insomma, è necessaria la liquidità che non mancò, per esempio, durante il miracolo economico quando gli italiani per finanziarsi emettevano le cambiali. Bastava avere i soldi per i bolli per fare il miracolo economico.

Il pil italiano risulta però finalmente in crescita. Non può essere questo un indizio che la direzione sia quella giusta?

Il punto non è lo zero virgola del pil. Il punto è che abbiamo avuto una perdita di dieci punti di pil in tempi abbastanza ristretti e un aumento annuale della popolazione residente dello 0,5 che in dieci anni è il 5%. Se sommo l'aumento del 5% della popolazione residente al 10% di decrescita del pil ottengo che il reddito disponibile pro capite si riduce del 15%. Con una riduzione tale è chiaro che i consumi stentano. Se poi un anno ho un aumento di zero virgola è un dato positivo ma non risolutivo.

Risulta chiaro dalle sue analisi che considera la direzione intrapresa sbagliata. Lei elabora una serie di proposte alternative al sistema capitalistico ultra-finanziario. Ci può spiegare il cosa intende per “Piano C” e per moneta complementare?

Si tratta di un piano alternativo al “Piano A”, che prevede l'accordo fra tutti i paesi europei per mettere mano a i trattati e modificare tutto il sistema dell'euro, e al “Piano B”, che prevede l'uscita unilaterale di un singolo paese dall'euro. Il “Piano C” tiene conto del fatto che la gente ha paura dell'uscita dalla moneta unica. Quello che però è possibile fare è affiancare una valuta complementare o emissioni fiduciarie pubbliche all'euro. Quest'operazione consentirebbe ai cittadini di abituarsi ai certificati di credito fiscali, ai certificati di credito erariali, ai buoni acquisto, ai meccanismi di compensazione dei crediti e dei debiti e alle monete locali. In questo modo si potrebbe uscire dall'euro gradualmente quasi senza accorgersene. L'euro rimarrebbe come una moneta internazionale e questo realizzerebbe quello che è stato già proposto da Keynes a Bretton Woods e bocciato dagli americani.

In questo modo il progetto di un'Europa politica fallirebbe in maniera definitiva.

Il progetto di un'Europa unita, o degli Stati Uniti d'Europa, non è qualcosa di realistico. Alcuni paesi come l'Italia, e in generale i paesi latini, sono stati molto ridimensionati anche nelle loro espressioni statalistiche con risultati nettamente negativi. Parliamo di un continente dove ci sono grandi conflitti che non possono essere risolti con delle ideologie o delle parole d'ordine. Bisogna invece puntare a un asse fra Roma e Berlino, Parigi, Mosca, Pechino, Teheran. Allora facciamo un ragionamento che ha un capo e una coda ma bisogna rimettere mano a tutto il discorso perché il mercato unico è sostenibile se lasciamo gli strumenti ai singoli paesi di aggiustare le loro economie. Se noi togliamo lo strumento statale e monetario, ovvero la flessibilità dei cambi, noi condanniamo il sud a un peggioramento e il nord a miglioramenti che non sono peraltro sufficienti a giustificare lo strazio sociale subito in questi decenni. La Germania in questo momento non ha alcuna intenzione di aiutare i deboli ma vuole solo mantenere la sua supremazia. Paradossalmente, in questo momento sono i deboli ad aiutare i forti.

Ci sono i presupposti e le condizioni per cambiare direzione? E non si cambiasse direzione cosa ci potremmo aspettare?

Le due condizioni che possono favorire questo processo sono il fatto che l'euro si rivelato inadatto per migliorare le condizioni economiche, tanto è vero che i paesi che non hanno l'euro e hanno il regime alternativo con la doppia circolazione monetaria stanno andando abbastanza bene mentre gli altri paesi stanno andando male e fra questi metto anche i paesi che stanno andando meglio come la Germania. L'altra condizione da considerare è che il capitalismo ultra-finanziario è talmente lontano all'economia reale da consentire a quest'ultima di riprendersi se trova i mezzi finanziari, monetari e creditizi per farlo. Io credo che questi mezzi possano essere facilmente approntati, perché quello che fa la differenza fra le economie è il funzionamento dei servizi pubblici, la ricerca, i brevetti, le capacità produttive e tecnologiche, non i meccanismi finanziari. Da questo punto di vista, sono abbastanza speranzoso. Dall'altro lato credo che la partita sarà decisa dalle piccole imprese che già operano in regime post capitalistico perché non fanno profitto e non applicano alcuna regola dell'economia della finanza ma semplicemente controllano risorse locali e producono. Se le piccole imprese riusciranno a sviluppare una coscienza sociale e la consapevolezza di poter diventare una classe, io credo che possiamo venirne a capo. Diversamente sarà difficile.

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