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ALBERTO BAGNAI: IL SOGNO EUROPEO E L'IDEOLOGIA NEOLIBERISTA

L'Europa non potrà cambiare rotta fino a che non si metteranno in seria discussione le basi ideologiche neoliberiste sulle quali vengono articolate le politiche economiche. Il cambiamento di rotta risulta però altamente improbabile, praticamente impossibile, nell'opinione dell'economista Alberto Bagnai che suggerisce invece di prendere atto del carattere antidemocratico e autoritario dell'attuale classe dirigente europea. Un eventuale percorso riformista sarebbe inoltre reso difficile dal regime della moneta unica che rappresenta la principale causa del crollo del potere d'acquisto dei lavoratori. Di fronte all'evidenza del fallimento delle politiche economiche e delle difficoltà del cambiamento, Bagnai ipotizza piuttosto un inesorabile deterioramento del progetto europeo. Il fallimento delle politiche neoliberiste, adottate in pianta stabile dall'Unione Europea, rischia inoltre di trascinare nel baratro uno degli obiettivi più importanti delineato dai padri fondatori: quello dell'integrazione politica.

Professor Bagnai cominciamo dall'attualità. Quali sono le sue previsioni in seguito alla Brexit?

Rispetto agli impatti economici, la mia opinione è in linea con quella dell'economia ortodossa che non prevede enormi sconquassi. Anche se è ancora presto per dirlo, l'ipotesi di un crollo dell'economia inglese o di quella europea determinata dalla Brexit appare infondata. Dal punto di vista politico, la Brexit è senz'altro una sconfitta di Bruxelles. Se questo evento fosse veramente destabilizzante, averlo previsto nell'articolo 50 del trattato significherebbe aver fatto un pessimo trattato, mentre, se questo evento si rivelasse destabilizzante, aver minacciato un paese che voleva avvalersi di questa clausola è, da parte delle istituzioni europee, un gesto che svela una natura profondamente antidemocratica e autoritaria e che al tempo stesso dimostra l'impreparazione e lo scarsissimo senso della dignità istituzionale degli attuali governanti. Aggiungo che la Brexit diventerà il capro espiatorio dei fallimenti di questa classe politica bancarottiera che l'Europa ci ha imposto.

I tempi sono stretti e sembra improbabile poter mettere mano ai trattati nel breve periodo. Si è però parlato di possibili interventi come di un fondo per la disoccupazione e di un fondo per supportare le riforme. Un'altra Europa le sembra possibile o l'impalcatura è destinata a crollare e noi a rimanerci sotto?

Un'altra Europa non mi sembra possibile visto che, anche nella migliore delle ipotesi, nessuno sembra voler mettere in discussione i due pilastri che reggono l'intero impianto: la moneta unica, ovvero la libera circolazione dei capitali, e Schengen, ovvero la libera circolazione del fattore lavoro. Un progetto che si articola sulla libera circolazione dei fattori produttivi, vista come espediente messianico di soluzione di tutti i problemi, ha una matrice ideologica fortemente neoliberista. Personalmente non condivido la posizione di quanti difendono un progetto neoliberista pensando di cambiarlo: è la gallina, o il pollo, che pensa di cambiare la volpe da dentro il suo stomaco. Secondo, già da ben prima del 2012 i rapporti di forza prevalenti non lasciavano spazio a un possibile processo riformista. Da allora abbiamo assistito a quattro anni di liti e di massacro della democrazia come in Grecia. E presto lo vedremo anche altrove. Ad oggi mi sembra che ci siano ancora meno elementi che possano garantire un riformismo dall'interno: se avessimo la volontà politica di cooperare già staremmo cooperando e quindi non saremmo in crisi. Il fatto stesso che siamo in crisi dimostra che non c'è la volontà politica di creare un'altra Europa. L'idea, secondo me un po' fascista, che ci vogliano le crisi per convincere il popolo, inducendolo a “fare la cosa giusta” attraverso la violenza dei fatti economici, si è dimostrata un'idea, paternalistica e sbagliata. A questo punto dobbiamo prenderne atto.

Quali soluzioni propone allora? Uscire dall'euro o uscire dall'Europa come ha fatto il Regno Unito rinunciando al progetto dell'integrazione politica?

Quello che è significativo dell'esperienza del Regno Unito è che ha desiderato affrancarsi dall'Unione Europea nonostante fosse al di fuori dei due pilastri neoliberisti dell'euro e di Schengen. Questo fatto apre a una serie di considerazioni: rinuncia all'Europa perché si tratta di un paese già fortemente neoliberista, e quindi non ha bisogno di Bruxelles, oppure rinuncia perché l'Europa oltre ai limiti in ambito economico presenta anche altri pericoli per la sovranità democratica di un paese? Pensiamo ad esempio a tutta la legislazione europea, pensiamo al fatto che tutte le istituzioni europee riflettono i rapporti politici di forza esistenti e quindi sono fortemente condizionate dagli interessi della Germania. Interessi legittimi se realizzati a casa loro ma meno legittimi se realizzati a casa nostra. Ma il dato positivo in chiave evolutiva della Brexit è che dimostra che esiste una porta. Gli eventuali effetti domino non dipendono dal fatto che gli inglesi abbiano mostrato che la casa europea ha una porta, ma dal fatto che in questa casa si sta male. Naturalmente, in Italia abbiamo un problema in più. Non abbiamo avuto la Thatcher, ma abbiamo l'euro che è un problema serio sia perché, com’è ormai chiaro a tutti (e agli economisti da sempre), obbliga a scaricare sui salari il costo degli aggiustamenti macroeconomici, sia perché richiede il suo smantellamento, che alla fine si dimostrerà inevitabile, che comporta una serie di snodi tecnici che sono formidabili in senso etimologico, cioè fanno paura. Tuttavia questa paura andrà affrontata, perché la questione non è tanto se usciremo dall’euro o meno, quanto se esso possa resistere o meno, e la risposta scientifica a questa domanda è inequivocabile: no. L’euro crollerà. Nel frattempo, questa scellerata macchina di deflazione salariale sta creando un alto livello di scontento nelle popolazioni. L'acqua sporca di questa moneta, che è stata ideata semplicemente per schiacciare i redditi da lavoro dipendente, è ora in grado di annegare il bambino dell'integrazione europea.

Quale potrebbe essere una politica coerente, anche dal punto di vista sindacale, per poter difendere il potere d'acquisto e i salari dei lavoratori?

Bisogna comprendere che il meccanismo dell'euro impone che l'aggiustamento avvenga attraverso il mercato del lavoro. Tutto quanto stiamo subendo (in Italia, in Francia, in Belgio...) in termini di riforma del mercato del lavoro, e quindi anche di riduzione degli spazi contrattuali, con il conseguente indebolimento del sindacato, dipende dal fatto che la moneta unica scarica sulla flessibilità dei salari l'aggiustamento agli shock macroeconomici. Il sindacato non dovrebbe accettare l’idea che il potere d'acquisto è tutelato da una banca centrale “indipendente”. Lo è forse dai lavoratori, ma non dai grossi potentati finanziari. Una volta che il sindacato accetta questa impostazione è finito. Ovviamente questo è un problema: i lavoratori devono avere chi tuteli i loro interessi. Negli anni dell’inflazione a due cifre i salari reali crescevano perché i sindacati facevano il loro lavoro, cioè lottavano. Ora che si è accettata l’impostazione secondo qui la “stabilità” dei prezzi è un valore assoluto, i sindacati ovviamente sono sconfitti, perché la stabilità dei prezzi, come qualsiasi testo di macroeconomia insegna, la si può ottenere solo moderando i salari con elevati tassi di disoccupazione (che ovviamente non rafforzano il potere contrattuale dei lavoratori e di chi li rappresenta). Per il sindacato una politica coerente sarebbe lottare, come vediamo che accade in Francia, in Belgio e in tutti i paesi dove si sta procedendo con riforme in chiave di flessibilità. Lottare, se possibile, cercando di capire dov’è il problema. Il problema è nel fatto che la flessibilità del lavoro è resa necessaria dal fatto che non potendo aggiustare il cambio si deve aggiustare il salario. Dobbiamo allora maturare culturalmente. Perché forze progressiste hanno difeso un progetto neoliberista? Adesso assistiamo al paradosso che perfino il Fmi ha un fatto un mea culpa, secondo me un po' ipocrita, dichiarando che il neoliberismo era stato “sopravvalutato”. Eppure loro sono i pretoriani del capitale. Qui in Italia i difensori del lavoro dovrebbero riconoscere che alcune cose sono cambiate, per cui sarebbe necessario riconsiderare alcuni elementi del progetto europeo. Il problema, secondo me, è strettamente culturale. Non possiamo ragionare nei seguenti termini: Marine Le Pen critica l'euro, quindi chi critica l'euro è fascista. Sono dei sillogismi che in politica possono compattare un consenso nel breve periodo, ma portano alla catastrofe nel lungo. Bisogna veramente ragionare sui problemi e non sulle appartenenze.

Il Ttip può essere una carta per uscire fuori dal pantano o è un'ulteriore prova della debolezza dell'Europa?

Gli accordi di libero scambio vengono sempre proposti dal forte al debole per crearsi un mercato di sbocco. È abbastanza significativo che si acceleri su questi accordi proprio nel momento di maggiore debolezza politica del progetto europeo. Personalmente inquadro questi accordi in un disegno ampio degli Stati Uniti che reagiscono al tentativo dei paesi emergenti di “dedollarizzarsi”, cioè di affrancarsi dall’uso del dollaro nel regolamento delle transazioni internazionali. L'emancipazione dal dollaro significa che gli Usa non potranno acquisire le risorse dei paesi emergenti semplicemente stampando denaro. Gli Usa sono stati gli acquirenti di ultima istanza dell'economia mondiale, il motore della crescita, il paese che poteva essere importatore netto dei beni altrui, perché stampando dollari poteva finanziare i propri acquisti. Questa strategia rischia di non essere più sostenibile: diventa allora importante dotarsi di un mercato di sbocco che consenta loro di diventare quello che la Germania è rispetto all'Europa, ovvero un esportatore netto, che si finanzia col debito altrui. Il Ttip è un pezzo di questa storia e il fatto che le istituzioni europee siano così acquiescenti rispetto a queste dinamiche ci riporta su un altro punto di fondo: l'Unione Europea è un progetto nato con una base ideologica e con un supporto organizzativo da parte della politica statunitense. Poteva avere un senso nel contesto della guerra fredda ma ora che le cose sono cambiate per noi ha sempre meno senso. Ma evidentemente noi, dopo la seconda guerra mondiale, non siamo completamente arbitri del nostro destino e anche la dinamica di come questi accordi vengono negoziati ce lo illustra in modo molto chiaro.

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