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PIU’ ROBOTS E MENO DELOCALIZZAZIONI

All’inizio era l’Europa che, insieme agli Stati Uniti, sviluppò un fiorente settore manifatturiero. Successivamente, dopo la seconda guerra mondiale, i cicli produttivi si sono riprodotti in Asia, dove paesi come Giappone e Sud Corea hanno potuto finanziare il loro sviluppo attraverso produzioni a basso costo per il mercato occidentale. E’ poi venuto il turno della Cina che, in egual misura, puntando sulla produzione a basso costo, ha potuto finanziare la crescita e puntare successivamente allo sviluppo di un mercato interno. I prossimi che vorrebbero salire sulla scala dello sviluppo tradizionale sono paesi attualmente molto poveri come Myanmar, Bangladesh, Cambogia. Paesi dove, non a caso, si cominciavano a registrare i primi fenomeni di delocalizzazione produttiva, facilitati dall’aumento dei salari in Cina. Il manifatturiero come trampolino dello sviluppo: un percorso quasi scontato per oltre un secolo che potrebbe però ora subire una battuta d’arresto definitiva, lasciando molti paesi fuori dall’itinerario classico dello sviluppo industriale. Le delocalizzazioni stanno, infatti, rallentando e, se il trend dovesse confermarsi, potrebbero arrestarsi in maniera definitiva nelle prossime decadi. Una rivoluzione epocale dovuta ai nuovi fenomeni di automazione: se il costo del lavoro dovesse abbattersi per via dell’utilizzo degli automi, non ci sarebbe più alcuna necessità per le aziende di andare a delocalizzare le loro produzioni nei paesi in via di sviluppo.

La finestra dello sviluppo industriale tradizionale si starebbe dunque chiudendo per i paesi in via di sviluppo con conseguenze imprevedibili sul mercato del lavoro e sul tessuto sociale. Secondo gli esperti dell’Ilo, ben l’80% dei lavoratori asiatici impiegati nel settore garment potrebbe perdere il posto di lavoro nei prossimi anni. Un recente reportage della Bloomberg ha messo in rilevo come le stesse start up cinesi stiano investendo massicciamente sui processi di automazione. E’ il caso della JD.com Inc., un’azienda di e-commerce di Pechino che sta testando l’utilizzo di macchine in grado di assemblare i pacchi per le spedizioni in tutto il mondo. Il processo di automazione assicura l’imballaggio di 3.600 oggetti all’ora, sostituendosi, in questo modo, al lavoro di almeno quattro operai. Di fronte ai recenti aumenti di stipendio, la Transit Luggage Co., azienda del Dongguan, era in procinto di spostare la produzione in Vietnam prima di introdurre macchinari capaci di sostituire il lavoro di 30 operai. L’azienda è quindi rimasta in Cina impiegando molti meno dipendenti rispetto a dieci anni fa e fatturando il triplo.

Non si tratta di fenomeni isolati ma di una strategia industriale su scala globale che prevede ulteriori sviluppi nei campi dell’intelligenza artificiale, della guida driverless di autoveicoli, dello sviluppo del digitale per usi domestici. A conferma delle intenzioni di Pechino d’investire la sua liquidità sui nuovi processi, c’è il caso del Guangdong che, già nel 2015, ha annunciato sussidi per circa 137 miliardi di dollari a vantaggio di aziende con piani di sviluppo o utilizzo di automazione. Complessivamente la Cina ha installato 90 mila nuovi robots nel 2016, il 30% in più rispetto all’anno precedente e un terzo del totale globale. Le possibilità di sviluppo sono però ancora notevoli se si considera la relazione fra processi di automazione e forza lavoro. Da questo punto di vista è ancora la Corea del Sud a guidare la classifica con 531 robots ogni 10 mila lavoratori, seguita dalla Germania, con 301 robots, e dagli Stati Uniti, con 176. La Cina ha ancora ampi margini di sviluppo, considerando che al momento si calcola la presenza di “appena” 49 robots ogni 10 mila lavoratori. Un processo di automazione che le autorità vorrebbero “made in China”, almeno per il 50% entro il 2020: nel 2016, solo il 31% dei robots risultavano fabbricati in Cina.

Il cambio di paradigma potrebbe decretare la fine della tendenza alla delocalizzazione produttiva. Se il costo del lavoro dovesse abbassarsi per via dei processi di automazione, verrebbe infatti a cadere la ragione principale per spostare la produzione all’estero. E i primi segnali di questo processo sono già visibili. L’Adidas ha appena “rimpatriato” una parte della produzione di calzature in una “speedfactory” ad elevato tasso di automazione in Germania e già pensa ad aprire una nuova fabbrica similare negli Stati Uniti. Il trend alla delocalizzazione potrebbe essere non solo invertito ma addirittura rivoluzionato come dimostra il caso della Shandong Ruyi Technology Group Co. L’azienda cinese ha annunciato un investimento di 410 milioni di dollari nell’apertura di una fabbrica tessile negli Stati Uniti.


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