La guerra dei semi
articolo tratto dalla rivista Terra Nuova di febbraio 2020
Dall’India al resto del mondo, le multinazionali stanno cercando di estendere il controllo sul primo anello della nostra catena alimentare. Le banche dei semi di Navdanya nascono per proteggere la biodiversità minacciata dalle monocolture ad alto input chimico promosse dalla Rivoluzione Verde.
E’ forse il luogo più importante della fattoria. Tutto, infatti, nasce da qui. Dai semi, dalla necessità di proteggerli, curarli, conservarli e metterli liberamente a disposizione dei contadini. La banca dei semi di Navdanya sorge all’estremità dei campi coltivati della fattoria di Dehradun, alle pendici dell’Himalaya. Un luogo recuperato alla biodiversità che custodisce migliaia di anni di sapienza contadina. Le multinazionali, che hanno fatto dell’appropriazione dei semi il loro obiettivo, non sono lontane, appena al di là delle recinzioni. Sono migliaia, se non milioni, le varietà vegetali scomparse nelle ultime decadi in seguito al lancio della Rivoluzione Verde mentre sono sempre di più i contadini dipendenti dai semi protetti da proprietà intellettuale. E la minaccia non cessa. Al contrario, le strategie delle multinazionali per appropriarsi di quello che resta continuano ad affinarsi.
Il centro per la conservazione della biodiversità di Dehradun è allora anche un luogo simbolico di resistenza, capace di riprodursi in tutta l’India: sono oltre cento le banche di semi che Navdanya ha contribuito ad aprire in tutto il paese. Ma l’India è solo uno degli esempi più evidenti della guerra globale in corso fra le multinazionali e i piccoli e medi agricoltori agroecologici. In tutto il mondo le corporations sono infatti sul piede di guerra per appropriarsi di fette sempre più consistenti di mercato. A partire, non a caso, dai semi, il primo anello della catena alimentare. Un’offensiva giustificata dalla preoccupazione di non poter continuare ad oltranza con il business as usual . Le grandi aziende dell’agribusiness, nonostante l’ingente potere economico e di influenza che detengono, stanno infatti perdendo terreno su molti fronti: su quello della fiducia dei consumatori che, nonostante le grandi sovvenzioni al convenzionale, continua a virare pericolosamente verso il biologico, su quello della scienza indipendente, che seguita ad enumerare i danni per la salute umana del cibo spazzatura, su quello degli economisti, che denunciano come i costi nascosti della grande produzione industriale ricadano immancabilmente sulla collettività, su quello dei cambiamenti climatici, con i climatologi che indicano nell’agricoltura industriale una delle principali cause del riscaldamento globale.
Il fronte della transizione è dunque ampio e in crescita, ma enti e istituzioni sembrano ancora ancorati ai vecchi modelli produttivi, nonostante il fallimento dimostrato e certificato su tutta la linea anche dalle Nazioni Unite e dalle iniziative di tantissime amministrazioni locali pronte a rivendicare la sovranità alimentare perduta nella rete del mercato globale. Il modo in cui produciamo, distribuiamo e consumiamo il cibo, a partire dai semi da cui tutto trae origine, diviene allora anche una questione di rivendicazione dei diritti democratici alla salute e alla sovranità alimentare, dei principi di sussidiarietà e di precauzione. E proprio da un seme, sottolinea la fondatrice di Navdanya, Vandana Shiva, la democrazia cresce, dal basso verso l’alto, come ogni cosa vivente.
Uniformità e monopoli: the show must go on
Assicurarsi il controllo dei semi e imporre il mantra dell’uniformità per facilitare l’espansione delle monocolture intensive, è la principale strategia dei grandi conglomerati sementieri mondiali. Il raggiungimento dell’obiettivo della crescita del fatturato non può essere, per la natura delle stesse multinazionali, ostacolato da considerazioni accessorie di carattere ambientale o sociale. Il principio di uniformità, necessario per il successo del modello agroindustriale delle monocolture, entra però in immediata collisione con i principi della biodiversità. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti, anche di quelli di organismi internazionali come la Fao che ha recentemente certificato il fallimento della Rivoluzione Verde e l’emergenza relativa alla biodiversità nel nostro pianeta, con il 75% della diversità genetica vegetale scomparso in soli cento anni. Dalle diecimila specie originarie, oggi si è arrivati a coltivarne poco più di 150 e la stragrande maggioranza del genere umano si ciba di non più di dodici specie di piante, con una conseguente perdita di principi nutritivi nel cibo che consumiamo.
Il principio di uniformità, applicato nella selezione dei semi che generano il nostro cibo, comporta un impatto non solo sulla salute del pianeta ma anche su quella degli esseri umani, come sottolinea il genetista Salvatore Ceccarelli, nel Manifesto Food for Health. La diversità della dieta è infatti importantissima per la nostra salute. “E qui cominciano i problemi. Come facciamo a mangiare diverso, se il 60% delle nostre calorie deriva da appena tre specie vegetali, cioè frumento, riso e granturco? E come facciamo a mangiare diverso se quasi tutto il cibo che mangiamo è prodotto da varietà che, per essere legalmente commercializzate, cioè perché i loro prodotti possano trovarsi legalmente nei supermercati, debbono essere iscritte ad un catalogo che si chiama “registro varietale”, e che per essere iscritte a tale registro debbono essere uniformi, stabili e riconoscibili? Se la nostra salute dipende dalla diversità e dalla composizione del microbiota, la quale a sua volta dipende dalla diversità della dieta, come facciamo a mangiare diverso se l’agricoltura che produce il nostro cibo è basata sulla uniformità?”.
Domande a cui la risposta appare scontata, considerando che sono proprio i moderni metodi di selezione ad aver contribuito alla diminuzione del numero di colture, con solo circa 30 specie che soddisfano il 95% della domanda mondiale di cibo, tra cui le quattro maggiori colture di base (grano, riso, mais e patate) che la fanno da padrone. Un circolo vizioso innescato ad arte visto che minore è la biodiversità, con le sue funzioni ecologiche che consentono di rinnovare la fertilità del suolo, di controllare i parassiti e le erbe infestanti, maggiore sarà la dipendenza dalle sostanze chimiche. La monocoltura, tipica dell’agricoltura industriale, è strettamente e strategicamente connessa a una crescente necessità di prodotti agrochimici, in particolare fertilizzanti e pesticidi. E’ facile allora capire perché le multinazionali del settore siano così interessate a imporre ai contadini i loro semi protetti da proprietà intellettuale, sbarazzandosi di tutte quelle varietà tradizionali che non rappresentano, dal loro punto di vista, un valore per la biodiversità, quanto piuttosto uno scomodo concorrente sul mercato.
Secondo la Fao, il maggior contributo alla perdita di biodiversità è rappresentato dall’agricoltura industriale, dalla deforestazione e ad altri eccessi del sistema alimentare industriale globalizzato, fattori che, a loro volta, contribuiscono anche ai cambiamenti climatici. La Fao ha, di conseguenza, espressamente bocciato i dettami della Rivoluzione Verde auspicando un nuovo impulso alle pratiche agroecologiche. E’ oramai accertato, infatti, che i piccoli agricoltori sono, in proporzione, più produttivi delle grandi aziende industriali, con una produzione equivalente al 70% del cibo a livello mondiale, mentre la presunta maggiore resa dell’agricoltura industriale richiede una quantità di input dieci volte superiori in termini di energia rispetto a quanto produca successivamente in termini di alimenti. La stessa Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha dichiarato che la decade tra il 2021 e il 2030 deve essere dedicata alla rigenerazione degli ecosistemi e ha emesso un appello all’azione globale.
Appelli che le multinazionali non sembrano però interessate a seguire. Al contrario la corsa all’accaparramento delle risorse e alla relativa creazione di monopoli sembra non volersi arrestare. Nel 2016, il mercato mondiale dei semi, con un giro d’affari di miliardi di dollari, risultava per circa il 55% nelle mani di cinque grandi multinazionali (in confronto al 10% del 1985) alcune delle quali controllano contemporaneamente un altro mercato multi miliardario, cioè quello dei pesticidi. Le recenti fusioni hanno ulteriormente aggravato il quadro. Syngenta e ChemChina hanno operato una fusione da 43 miliardi di dollari, Dow Chemical (già Union Carbide, responsabile del disastro industriale di Bhopal in cui persero la vita oltre 20.000 persone) si è fusa con Dupont per 122 miliardi di dollari dando vita alla Cotreva, mentre la Bayer ha acquisito la Monsanto per 66 miliardi di dollari. Ad oggi, quattro compagnie controllano oltre il 60% del mercato globale dei semi e il 70% di quello dei prodotti agrochimici e dei pesticidi. Una concentrazione che non ha precedenti nella storia e che inibisce l’emergere di modelli agricoli alternativi sostenibili e di sistemi diversificati di approvvigionamento di semi e di commercio. La campagna Seed Freedom è stata lanciata da Navdanya proprio con l’obiettivo di contrastare lo strapotere delle multinazionali creando un’alleanza internazionale per la difesa del diritto a conservare e scambiare liberamente sementi a impollinazione aperta e non Ogm.
Conservare, proteggere e riprodurre
Entrare nella banca dei semi di Navdanya equivale a entrare in un luogo di resistenza e azione politica. Sono gli stessi contadini, specializzati nella conservazione delle sementi, a mostrare con orgoglio il risultato delle loro battaglie quotidiane. Che continuano ancor oggi. Non solo per controbattere agli attacchi delle multinazionali, che vorrebbero appropriarsi delle loro risorse e cancellare le pratiche tradizionali gelosamente custodite, ma anche per indicare l’alternativa esistente e percorribile per un futuro di sostenibilità ed equità. La Navdanya Biodiversity Conservation Farm è stata fondata nel 1995 con lo scopo di conservare la biodiversità e insegnare, a studenti e contadini provenienti da tutto il mondo, le pratiche dell’agroecologia.
Negli ultimi 30 anni la ricerca di Navdanya nel campo dell’agricoltura ecologica e biodiversa ha dimostrato come l’agroecologia sia in grado di migliorare la nutrizione e la salute, di incrementare il reddito dei piccoli agricoltori e, allo stesso tempo, rigenerare il suolo, l’acqua e la biodiversità migliorando così la resilienza climatica. I programmi di Navdanya hanno raggiunto più di cinque milioni di agricoltori, di cui almeno un milione pratica effettivamente l’agricoltura biologica, mentre sono 124 le banche comunitarie di semi tradizionali avviate in tutta l’India. Questi centri permettono agli agricoltori di liberarsi dalla dipendenza di dover acquistare semi commerciali costosi, inaffidabili e nutrizionalmente vuoti e offrono un supporto nella conservazioni delle varietà resilienti ai cambiamenti climatici.
Si tratta, in tutto e per tutto, di un percorso di resistenza e rivendicazione, attivato per far fronte all’avanzare delle multinazionali che hanno fatto dell’India una delle loro terre di conquista preferite. Riconquistare la sovranità alimentare attraverso la rigenerazione della biodiversità è il primo passo per far fronte alla devastazione causata dall’avvento delle monocolture intensive. Per comprendere l’impatto della Rivoluzione Verde sulla biodiversità dell’India è sufficiente analizzare quanto accaduto a una delle principali colture del continente, quella del riso. Sono oltre 200.000 mila le varietà di riso quasi completamente scomparse. Una vera strage varietale avvenuta in nome del principio di uniformità, che ha permesso alle multinazionali di estendere un controllo sul mercato pressoché totale. Navdanya è riuscita a salvare circa 4.000 varietà di riso in tutta l’India di cui 1.500 sono custodite proprio nella banca dei semi di Dehradun.
L’India rappresenta, da questo punto di vista, uno dei palcoscenici prediletti dell’agrobusiness sulla scacchiera globale. La resistenza contro quelli che vengono definiti atti di biopirateria va avanti, in questa parte di mondo, da almeno venticinque anni, da quando Vandana Shiva sfidò e sconfisse nei tribunali internazionali le potenti multinazionali che intendevano brevettare la pianta tradizionale Neem. Una battaglia vinta nell’ambito di una guerra permanente. Nel 1998, Navdanya riuscì ad arginare il tentativo della Rice Tec di appropriarsi del famoso riso basmati mentre nel 2004 fu il turno della Monsanto che si vide revocare il brevetto su una varietà di riso indiana, il Nap Hal.
Vittorie importanti, ma che non possono essere considerate definitive. La guardia deve rimanere alta, come dimostrato dal recente caso delle melanzane transgeniche Bt, la cui coltivazione in India è stata bloccata da una moratoria. Il tentativo in corso da parte delle multinazionali è quello di aggirare la legge approvvigionando gli agricoltori con le sementi vietate e promuovendo campagne di semina illegale. L’obiettivo? Creare nuovi monopoli come quello del cotone, il cui mercato è saldamente nelle mani della Monsanto. Oltre il 90% del cotone proveniente dall’India, il secondo maggior produttore al mondo, è cotone Bt. La vita di circa 60 milioni di persone, fra cui 4,5 milioni di contadini, è legata alla produzione e al commercio del cotone controllato dall’azienda recentemente acquisita dalla Bayer.
La nuova frontiera delle multinazionali, la nuova terra di conquista, è quella dei semi resilienti ai cambiamenti climatici. Si tratta di colture resistenti a siccità, inondazioni e salinità, frutto della selezione e dell’innovazione collettiva degli agricoltori. L’industria biotecnologica rivendica, da parte sua, il primato dell’ingegneria genetica sulle colture resilienti. Un business miliardario in un’epoca in cui gli eventi estremi stanno divenendo quotidianità: sarebbero oltre 1500 i brevetti detenuti dalle multinazionali sulle varietà resilienti, come denuncia ancora una volta la presidente di Navdanya. “L’industria agrochimica e biotech” scrive Vandana Shiva “sta usando le varietà resilienti al clima sviluppate dagli agricoltori e producendo una mappatura del loro genoma, per poi rivendicare come proprie invenzioni, coperte da brevetti, i tratti originariamente selezionati dagli agricoltori. Questa non è selezione genetica, bensì pirateria, anzi, biopirateria”.
La conservazione delle varietà selezionate dagli agricoltori è dunque di primaria importanza. Avere a disposizione, per la libera distribuzione, varietà resilienti può rappresentare la differenza fra la vita e la morte per moltissime comunità che non potrebbero permettersi di acquistare annualmente i semi brevettati delle multinazionali. Il seme, il primo anello da cui dipende la nostra intera catena alimentare, non è mai stato così a rischio, circondato da multinazionali voraci che intendono sottrarlo al dominio pubblico per estendere il loro controllo sul nostro cibo. Proteggere, conservare e distribuire liberamente i semi diviene allora una questione di sopravvivenza e di libertà che riguarda tutti gli abitanti del pianeta, come sottolinea ancora Vandana Shiva: “Salvare e coltivare semi locali è diventato un imperativo politico, sociale, economico, ecologico, sanitario e scientifico. Solo in questo modo gli agricoltori possono avere la sicurezza dei mezzi di sussistenza, mentre i consumatori possono avere la sicurezza nutrizionale, il gusto e la qualità”.